furto-in-casa-attraverso-ponteggi

Con l’ordinanza n.26691/2018 la Corte di Cassazione fornisce chiarimenti circa la responsabilità solidale tra impresa e condominio nel caso di furti in abitazione attraverso ponteggi per lavori di ristrutturazione.

I fatti in breve

Nel 2007 la proprietaria di un appartamento faceva causa al condominio, in cui era allocato l’immobile, ed all’impresa che si era occupato di alcuni lavori condominiali, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti al furto di alcuni preziosi e denaro sottratti nel suo appartamento ad opera di ignoti.

I malviventi si erano introdotti in casa attraverso ponteggi lasciati incustoditi dalla impresa esecutrice dei lavori.

Il Tribunale di primo grado accoglieva la domanda della parte attrice, condannando solidalmente la ditta ed il condominio al pagamento del risarcimento.

Il condominio proponeva appello avverso la sentenza, evidenziando la propria estraneità ai fatti, e chiedendo che l’intera responsabilità ricadesse sulla sola impresa appaltatrice, ritenendosi custode delle cose di proprietà comune e non anche dei ponteggi. A sostegno della propria tesi, il condominio esibiva due fax con i quali sollecitava l’impresa ad adottare tutte le misure di sicurezza necessarie.

La Corte di secondo grado accoglieva l’appello, rigettando la domanda proposta dalla proprietaria nei confronti del condominio.

La Cassazione, a seguito di ricorso della proprietaria, chiarisce che:

nella ipotesi di furto in appartamento condominiale, commesso con accesso dalle impalcature installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, è configurabile la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2043 cod. civ., per omessa ordinaria diligenza nella adozione delle cautele atte ad impedire l’uso anomalo dei ponteggi,nonché la responsabilità del condominio, ex art. 2051 cod. civ., per l’omessa vigilanza e custodia, cui è obbligato quale soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura (Cass. N. 26900/2014; Cass. N. 6435/2009)

Pertanto la Corte accoglie il ricorso.

Pubblicato da: Gianluca | ottobre 1, 2018

Gli obblighi per la gestione delle emergenze nel condominio

Stiamo parlando dell’intervento “Gestione delle emergenze in condominio. Datori di lavoro, amministratore, proprietari: chi deve fare cosa”, a cura dell’Ing. Cristoforo Moretti (Centro Studi ANACI Lombardia) che ricorda come “fuori dai luoghi di lavoro non sono vigenti le leggi che regolano la sicurezza nei luoghi di lavoro quindi non si può parlare di gestione delle emergenze nei luoghi di lavoro”. E “i non-luoghi-di-lavoro sono detti ambienti di vita”.

Negli ambienti di vita “in caso di emergenza ognuno pensa per sé”. In particolare, continua la relazione, “se qualcuno scappando si fa male e ricorre al giudice, questi valuterà se tutti hanno rispettato i propri obblighi giuridici, relativi alla sicurezza nei luoghi di lavoro per i datori di lavoro, alle altre leggi (codici, testi antincendio, impiantistici, norme tecniche, regolamenti ove applicabili ecc.) per tutti gli altri”.

Infatti fuori dai luoghi di lavoro valgono i codici civile e penale, le leggi di prevenzione incendi, impiantistiche, le norme tecniche sulle costruzioni, i regolamenti edilizi, …

Invece negli ambienti lavorativi “si può parlare di gestione delle emergenze nei luoghi di lavoro”, con riferimento a quanto contenuto nel D.Lgs. 81/2008.

La relazione riporta alcune indicazioni tratte dal vigente D.Lgs. 81/2008, ad esempio riguardo agli obblighi del datore di lavoro e del dirigente.

Si ricorda che datore di lavoro e dirigenti devono ‘designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza’. E riguardo alla prevenzione incendi fino all’adozione dei decreti indicati nell’articolo 46 ‘continuano ad applicarsi i criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione delle emergenze nei luoghi di lavoro di cui al decreto del Ministro dell’interno in data 10 marzo 1998’.

DM 10 marzo 1998

Si applica il DM 10 marzo 1998 in condominio?

Se per ora è ancora vigente il decreto ministeriale 10 marzo 1998, che cosa succede nel condominio? Si applica il d.m. 10 marzo 1998?

Il relatore indica chiaramente che “se il condominio non ha dipendenti, il decreto ovviamente non si applica al condominio perché non esiste datore di lavoro”.

In particolare, l’immobile, “in assenza di dipendenti condominiali, può essere contemporaneamente:

  • luogo di lavoro per eventuali condòmini/inquilini datori di lavoro;
  • luogo di lavoro per appaltatori o lavoratori autonomi;
  • ambiente di vita per tutti gli altri, amministratore compreso”.

E il DM 10 marzo 1998 e la gestione delle emergenze “restano in capo ai datori di lavoro eventualmente presenti: condòmini o inquilini titolari di attività lavorative ubicate nell’ immobile condominiale, ma anche imprese in appalto”.

Cosa succede se, invece, esistono dipendenti condominiali (custode, portiere, o altro)?

L’intervento ricorda alcune parti del D.Lgs. 81/2008, ad esempio il contenuto del comma 9 dell’articolo 3:

Articolo 3 – Campo di applicazione

(…)

9. Fermo restando quanto previsto dalla legge 18 dicembre 1973, n. 877, ai lavoratori a domicilio ed ai lavoratori che rientrano nel campo di applicazione del contratto collettivo dei proprietari di fabbricati trovano applicazione gli obblighi di informazione e formazione di cui agli articoli 36 e 37. Ad essi devono inoltre essere forniti i necessari dispositivi di protezione individuali in relazione alle effettive mansioni assegnate. Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III.

(…)

E poiché il DM 10 marzo 98 “non è citato al comma 9 dell’art.3, ergo continua a non applicarsi ai dipendenti di proprietari di fabbricati e ai condomini”.

In definitiva il DM 10 marzo 1998 “non si applica ai condomini con (o senza) dipendenti, pertanto ai sensi di legge:

  • non è richiesta la nomina di addetti antincendio;
  • non è richiesta la formazione di addetti antincendio;
  • non è richiesto alcun piano di emergenza”.

L’amministratore condominiale ha un solo compito dal DM 10 marzo 1998 con riferimento al contenuto dell’Allegato VII: “quando nello stesso edificio esistono più datori di lavoro l’ amministratore condominiale promuove la collaborazione tra di essi per la realizzazione delle esercitazioni antincendio”.

La relazione riporta poi varie ulteriori conferme all’assunto che per i dipendenti di condominio il D.Lgs. 81/2008 non richieda nomina di addetti antincendio, con riferimento a vari documenti.

Ad esempio:

  • articolo 36, comma 3 del DLgs. 81/2008;
  • Interpello n. 13/2013;
  • Parere del Ministero dell’Interno/Dipartimento dei Vigili del Fuoco del 17 novembre 2003.

L’intervento continua indicando poi che, per quanto detto sopra, vale una unica eccezione.

Se, infatti, “il CCNL applicato al dipendente fosse diverso da quello dei proprietari di fabbricati, l’art.3 comma 9 del d.lgs. 81/08 non sarebbe più applicabile e l’amministratore sarebbe datore di lavoro ‘classico’, e quindi soggetto in pieno al d.m. 10 marzo 1998”.

Rimandiamo alla relazione, che vi invitiamo a leggere integralmente e che riporta altre indicazioni e aspetti normativi, e segnaliamo che la relazione si conclude sottolineando un aspetto importante per l’amministratore di condominio.

Si indica che “quanto detto non esime l’amministratore di condominio (o il proprietario immobiliare) – in assenza di obblighi di gestione delle emergenze – dall’intervenire per risolvere situazioni che possono costituire insidia: i luoghi di lavoro o di vita devono comunque essere sicuri”. E naturalmente “non è vietato installare planimetrie di emergenza sui pianerottoli, cartelli di segnalazione delle vie di fuga, luci di emergenza. Semplicemente, se non è richiesto dalla normativa di prevenzione incendi, non è obbligo per il condominio e quindi la spesa per accogliere la richiesta di un datore di lavoro deve essere consapevolmente approvata dall’assemblea”.

(RTM – Punto Sicuro)

Scarica i documenti da cui è tratto l’articolo:

“ Gestione delle emergenze in condominio. Datori di lavoro, amministratore, proprietari: chi deve fare cosa”, a cura dell’Ing. Cristoforo Moretti (Centro Studi ANACI Lombardia), intervento al convegno titolo “Prevenzione in condominio e nella proprietà immobiliare”, (formato PDF, 1.28 MB).

Cassazione: il rivestimento del parapetto e della soletta devono essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole

Mentre i balconi di un edifico condominiale non rientrano tra le parti comuni, ai sensi dell’art. 1117 c.c., non essendo necessari per l’esistenza del fabbricato, né essendo destinati all’uso o al servizio di esso, il rivestimento del parapetto e della soletta devono, invece, essere considerati beni comuni se svolgono una prevalente funzione estetica per l’edificio, divenendo così elementi decorativi ed ornamentali essenziali della facciata e contribuendo a renderlo esteticamente gradevole.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione con la sentenza 30071/2017 dello scorso 14 dicembre (disponibile nel file allegato), con la quale è stato rigettato il ricorso proposto da un privato che lamentava danni per una perdita d’acqua proveniente dal balcone soprastante ed il proprietario del relativo appartamento.

Secondo gli ermellini, “l’accertamento del giudice del merito che il parapetto del fronte dei balconi degli appartamenti di un edificio assolva prevalentemente alla funzione di rendere esteticamente gradevole l’edificio (quale, nella specie, quello operato dalla Corte d’Appello di Napoli, alla tregua delle risultanze della CTU) costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatto storico decisivo e controverso ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”.

Per questo motivo, l’eventuale azione di un condomino diretta alla demolizione, al ripristino, o comunque al mutamento dello stato di fatto degli elementi decorativi del balcone di un edificio in condominio (nella specie, relativi ai frontali ed ai parapetti), costituenti, come tali, parti comuni ai sensi dell’art. 1117, n. 3, c.c., va proposta nei confronti di tutti i partecipanti del condominio, quali litisconsorti necessari, essendo altrimenti la sentenza “inutiliter data”.

Addirittura – chiude la Cassazione – la necessità d’integrare il contraddittorio deve essere valutata non secundum eventum litis, ovvero sulla base delle diverse presentate modalità attuative dell’intervento tecnico di ripristino del balcone, bensì nel momento in cui l’azione sia proposta valutando se la stessa – in base al petitum – sia potenzialmente diretta anche a una modifica della cosa comune.

(Matteo Peppucci – INGENIO)

Trasformare un balcone in veranda è una necessità di molti condomini per ricavare maggior spazio e ampliare, quindi, il godimento dell’immobile stesso. Quali sono gli obblighi da rispettare: bisogna chiedere il permesso del condominio o il permesso di costruire del Comune?

La veranda è, a tutti gli effetti, una nuova costruzione che richiede il permesso di costruire e il Comune non può subordinare il rilascio del permesso di costruire all’autorizzazione dell’assemblea di condominio.

I chiarimenti circa i permessi, le autorizzazioni e le procedure necessarie arrivano dalla recente sentenza 4421/2018 del Tar Napoli.

Il fatto in breve

Nel caso in esame, il proprietario di un immobile posto in un condominio procede alla chiusura di un balcone trasformandolo in veranda in alluminio anodizzato e vetri, senza alcun titolo autorizzatorio; il Comune ingiunge, inevitabilmente, l’ordine di demolizione.

Il proprietario si difende asserendo che si tratterebbe di un’opera amovibile di esigue dimensioni, priva di un autonomo valore di mercato, annoverabile come pertinenza. Pertanto, trattandosi di un intervento di manutenzione straordinaria, soggetto alla SCIA, l’abuso doveva essere sanzionato con la semplice sanzione pecuniaria (ai sensi dell’art. 37 del dpr 380/2001) e non con la demolizione.

La decisione del Tar Napoli

In base a quanto espresso dai giudici campani con la sentenza in esame, sia la legge che la giurisprudenza escludono categoricamente che per chiudere un balcone “fai da te” ci sia bisogno di permessi del condomino; tuttavia,  trattandosi di una “nuova costruzione” ossia di uno spazio chiuso che destinerai ad ambiente abitabile, è necessario richiedere il permesso di costruire al Comune (salvo che non si tratti di uno spazio angusto).

Permesso del condominio

La realizzazione di una veranda non richiede, quindi, la preventiva autorizzazione dell’assemblea di condominio. Il proprietario può serenamente avviare i lavori senza comunicarlo agli altri condomini, ma solo all’amministratore, purché l’intervento:

  • non costituisca un pericolo per la stabilità dell’edificio; a tal fine avrà molta importanza l’elaborato di un tecnico che abbia valutato in anticipo i pesi della costruzione e il bilanciamento degli stessi con la struttura del balcone e del palazzo
  • non pregiudichi l’aspetto architettonico e il decoro della facciata dell’edificio, ossia non bisogna creare cioè una alterazione delle linee originariamente disegnate dal costruttore tanto da deturparne l’estetica

In definitiva, la realizzazione del balcone è vietata se ciò mette in pericolo o pregiudica la stabilità dell’edificio o lede il decoro architettonico dell’edificio.

Permesso di costruire

Dal punto di vista burocratico, invece, per la trasformazione del balcone in veranda è necessario il permesso di costruire del Comune qualora comporti la creazione di superficie abitabile. Si tratta, infatti, di un manufatto capace di determinare un aumento della superficie utile nonché la modifica della sagoma dell’edificio; laddove l’opera fosse realizzata in assenza di un valido titolo edilizio è prevista la demolizione.

Oltre al titolo abilitativo è necessario verificare che l’immobile abbia ancora della volumetria residua, che siano rispettati i rapporti di superficie aereo illuminante stabiliti dal regolamento d’igiene, siano rispettate le verifiche statiche e antisismiche ed eventuali altre norme contenute nel proprio regolamento comunale e, talvolta, nel regolamento condominiale.

(fonte Biblus-net)

Clicca qui per scaricare la sentenza 4421/2018

Pubblicato da: Gianluca | agosto 27, 2018

Telecamere in condominio, lecite solo a determinate condizioni

videosorveglianza-condominio

 

Telecamere lecite in condominio, ma soltanto allo scopo di tutelare la sicurezza delle persone e dei beni, con ridotto ambito visivo e con il rispetto degli adempimenti preliminari indicati dall’Autorità garante. Una delle novità più innovative contenute nella legge di riforma del condominio n. 220 del 2012 è stata quella che ha legittimato l’installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni e che ha specificato il procedimento necessario per adottare tale soluzione. Infatti in precedenza la videosorveglianza in ambito condominiale non aveva una normativa specifica di riferimento e si erano addirittura registrate alcune sentenze di merito che avevano negato la legittimità delle videoriprese.

Tale lacuna normativa era stata segnalata dall’Autorità Garante della privacy, che aveva in più occasioni evidenziato al governo e al parlamento l’assenza di una puntuale disciplina capace di risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati nell’esperienza degli ultimi anni. Non era risultato chiaro infatti se, pur applicando i principi generali, l’installazione di sistemi di videosorveglianza potesse essere decisa dai soli condomini o se fosse necessario coinvolgere anche i conduttori del caseggiato.

In ogni caso il problema centrale era sempre stato quello dell’individuazione del numero di voti necessario per la relativa delibera assembleare, non essendo chiaro se per l’installazione di detto impianto occorresse l’unanimità o fosse sufficiente una determinata maggioranza. Secondo una decisione di merito l’assemblea di condominio non avrebbe nemmeno potuto validamente deliberare in materia, in quanto lo scopo della tutela dell’incolumità delle persone e dei beni di proprietà dei condomini non sarebbe rientrato tra le attribuzioni dell’organo assembleare. Un’altra decisione di merito aveva poi sottolineato che il singolo condomino, in mancanza di una normativa ad hoc, non avrebbe avuto alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi di proprietà di altri condomini.

Come detto la legge n. 220/2012 ha infine risolto ogni dubbio sulla possibilità di effettuare riprese video nelle parti comuni del condominio e ha confermato come le deliberazioni concernenti l’installazione di impianti volti a consentire la videosorveglianza possano essere approvate dall’assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (art. 1136, comma 2, c.c.).

L’assemblea quindi può certamente deliberare di introdurre nuovi impianti volti a garantire i beni (comuni e individuali) ma anche l’incolumità degli stessi condomini o loro familiari. Nel votare la delibera in questione l’assemblea deve comunque operare per il solo raggiungimento delle finalità di tutela delle persone e dei beni comuni e non avere di mira altri obiettivi che, viceversa, renderebbero il trattamento dei dati intrinsecamente illegittimo (si pensi, per esempio, alla concorrente normativa sui c.d. atti emulativi, ovvero su quelle attività poste in essere all’unico o prevalente scopo di arrecare fastidio a terzi). In casi del genere, come anche nel caso in cui l’assemblea decidesse di non porre in essere gli adempimenti previsti dalla legge e dei quali si dirà a breve, la delibera favorevole all’installazione dell’impianto, anche se approvata con la maggioranza di legge, potrebbe risultare invalida.

L’amministratore di condominio, munito dell’autorizzazione assembleare, è infatti tenuto ad adottare tutte le cautele previste dal provvedimento generale dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in materia di videosorveglianza dell’8 aprile 2010 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 99 del 22 aprile 2010), il quale deve ritenersi tuttora vigente, in quanto non in contrasto con la nuova normativa europea di cui al regolamento n. 679/2016.

L’amministratore deve quindi avere cura di affiggere un cartello informativo in un luogo visibile e aperto al pubblico (si tratta di un facsimile che rappresenta il disegno di una telecamera e che contiene un’informativa semplificata e che si può scaricare dal sito internet della medesima Authority, all’indirizzo http://www.garanteprivacy.it). Detto avviso deve comunque essere integrato con almeno un’altra informativa maggiormente circostanziata che informi gli interessati circa le finalità delle riprese e l’eventuale conservazione delle immagini, da collocarsi sempre in un luogo di pubblico accesso, per esempio all’ingresso dello stabile.

Nel caso in cui si decida di conservare le immagini riprese dal sistema di videosorveglianza (scelta che richiede l’implementazione di un’organizzazione specifica da parte dell’amministratore) occorre poi stabilire i tempi minimi di conservazione delle immagini (consentita, in ogni caso, per un massimo di 24 ore) e individuare il personale abilitato a visionare le stesse con atto di nomina di responsabile e incaricato del trattamento. In questo caso occorre inoltre anche chiedere all’Autorità Garante la verifica preliminare dell’impianto qualora si ricada in uno dei casi particolari previsti dal predetto provvedimento generale.

Più in generale, occorre ricordare che la videosorveglianza è lecita soltanto se viene rispettato il c.d. principio di proporzionalità, ovvero se l’impiego delle telecamere in relazione agli scopi perseguiti rappresenti l’unica soluzione possibile rispetto ad altri dispositivi di sicurezza (per esempio sistemi di allarme, blindatura o protezione rafforzata di porte e portoni, cancelli automatici ecc.). Il medesimo principio deve essere poi applicato in relazione alle modalità di installazione dell’impianto, alla dislocazione delle singole telecamere, alla disposizione dei relativi angoli visuali, all’utilizzo di zoom, fermo immagine, nonché alla registrazione delle riprese.

L’inosservanza degli adempimenti in questione, oltre all’eventuale invalidità della delibera assembleare, può quindi condurre a responsabilità amministrative e perfino penali in capo all’amministratore condominiale, oltre che esporre i condomini a richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati.

Fermo quanto sopra, una volta ottenuta una valida deliberazione assembleare che autorizzi l’installazione dell’impianto, va da sé che per la rilevazione delle immagini non sia più necessario richiedere e ottenere il previo consenso dei condomini dissenzienti, degli inquilini e degli altri soggetti terzi frequentatori dell’edificio condominiale, perché le riprese in questione avranno come obiettivo la tutela della sicurezza delle persone e dei beni comuni, cioè di interessi che la legge, con l’utilizzo delle precauzioni di cui sopra, considera prevalenti rispetto al diritto alla riservatezza dei soggetti eventualmente ripresi.

I singoli condomini possono poi liberamente installare delle telecamere a uso privato nell’ambito della proprietà esclusiva e delle relative pertinenze ma, in questo caso, il raggio visuale dell’impianto deve essere limitato al perimetro delle stesse. In caso contrario, come ribadito dalla Corte di giustizia europea con una sentenza del 2014, il titolare del trattamento è tenuto a rispettare i medesimi adempimenti visti in precedenza (con particolare riferimento all’informativa).

La sentenza in questione ha infatti indirettamente confermato quanto già previsto dal citato provvedimento generale dell’Autorità garante del 2010, chiarendo ulteriormente che le videoriprese del proprietario di casa possono considerarsi di utilizzo esclusivamente personale (e dunque esenti dagli obblighi di legge) soltanto ove l’angolo visuale delle riprese sia limitato agli spazi di pertinenza esclusiva (classico l’esempio dell’area antistante l’ingresso dell’appartamento o del box), con esclusione delle parti comuni (cortili, pianerottoli, scale ecc.) e/o di proprietà esclusiva di altri condomini.

Fonte: Italia Oggi del 20 agosto 2018

Pubblicato da: Gianluca | luglio 24, 2017

Il condominio può vietare le zanzariere?

Un Condominio di Milano aveva adito il locale Tribunale per ottenere la condanna di una condomina all’eliminazione di una zanzariera rimovile da questa apposta sul balcone della cucina del proprio appartamento. Si trattava di una zanzariera bianca, proprio come il colore delle ringhiere di tutti i balconi del fabbricato, e per di più ricoperta da una tenda da sole pure essa identica alle altre tende infisse sulla facciata. Il Tribunale di Milano, nella sentenza del 17 marzo 2017 che (verrebbe sin d’ora da aggiungere: “per fortuna”) ha rigettato la domanda del Condominio, ci ha tenuto a precisare che nell’allegato regolamento non sussisteva nè “un divieto specifico di apposizione di zanzariere … nelle proprietà private e sulla facciata”, né disposizione alcuna volta a dare una più rigorosa definizione del concetto di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., ed ha quindi valutato in concreto il difetto di qualsivoglia pregiudizio estetico del complesso edilizio.

Sia che si intenda la sentenza in esame quale frutto di quella che viene definita “creatività giurisprudenziale in senso pragmatico”, sia che voglia sostenersi che ogni legge dell’uomo rivela comunque un contenuto minimo del diritto naturale, sia che voglia semplicemente lodarsi il buon senso del giudice milanese, quella in commento non è decisione che si possa non condividere.

E’ certo che un regolamento di condominio, cosiddetto “contrattuale”, possa anche contenere un divieto di apportare qualsiasi modifica strutturale, funzionale o pure meramente estetica alla proprietà individuali, o alle annesse parti comuni utilizzate a servizio delle singole unità immobiliari, ed in tal caso non c’è nemmeno da interrogarsi se sia, o meno, rispettato il decoro architettonico dell’intero edificio (cfr. Cass. 13 giugno 2013, n. 14898).

E’ pure certo che il regolamento, sempre di natura contrattuale (quindi ferme le distinte questioni della sua necessaria accettazione consensuale, e della sua opponibilità ai terzi soltanto se trascritto), può, in quanto espressione dell’autonomia privata, contemplare una convenzione che dia del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120, comma 4, c.c. (per le innovazioni delle parti comuni) e dall’art. 1122 c.c. (per le opere su parti di proprietà o uso individuale), fino ad arrivare ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica ed all’aspetto generale dell’edificio esistenti nel momento della sua costruzione od in quello dell’approvazione del medesimo regolamento (Cass. 24 gennaio 2013, n. 1748).

In un precedente della Corte di cassazione, relativo appunto ad un condominio che era dotato di un regolamento vietante ogni variazione all’aspetto esterno dell’immobile, si ritenne valida la delibera assembleare che impediva ad un condomino proprio l’installazione sul balcone di sua proprietà esclusiva di una zanzariera, ma ciò perché il manufatto, per le sue caratteristiche (telaio in alluminio installato lungo il perimetro esterno del balcone dell’appartamento ), risultava immediatamente visibile dall’esterno, e dunque lesiva del decoro architettonico dell’edificio (così Cass. 29 aprile 2005, n. 8883). Si consideri, in ogni modo, che l’accertamento se una determinata opera o addizione costituisca in concreto lesione del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, spetta al giudice di merito ed è insindacabile dalla Corte di cassazione, a meno che non si denunci un vizio della motivazione della sentenza.

Viene, piuttosto, da considerare che una clausola di un regolamento di condominio, che vietasse di per sé l’apposizione di zanzariere a tutela delle finestre e dei balconi presenti nelle singole unità immobiliari (e, cioè, indipendentemente dal pregiudizio eventualmente arrecato in concreto al decoro architettonico del fabbricato, per le loro dimensioni, la loro struttura o il loro colore) si rivelerebbe una compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario non corrispondente ad un interesse meritevole di tutela: le zanzariere, invero, rientrano ormai nel novero di quelle dotazioni che, similmente agli stessi infissi, devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento, in quanto rispettano l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene e salubrità.

Dio non voglia che una interpretazione estensiva del nuovo comma 5 dell’art. 1138 c.c., introdotto dalla Riforma del 2012, il quale “vieta al regolamento di vietare” di possedere o detenere animali domestici, porti qualcuno a sostenere che il regolamento non possa neppure permettere ai condomini di vietare di far entrare in casa le zanzare.

(Altalex, 12 giugno 2017. Nota di Antonio Scarpa tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)

Pubblicato da: Gianluca | giugno 10, 2015

Convocazione assemblea condominiale giovedì 25 giugno ore 20:30

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Con sentenza 31 marzo 2015, n. 6552 la Suprema Corte ha risolto la questione sul se il verbale dell’assemblea condominiale debba essere redatto, corretto e chiuso necessariamente nel corso e alla presenza dell’assemblea condominiale, oppure possa essere redatto, corretto o modificato anche in assenza dell’organo collegiale, essendo, al riguardo, sufficiente che il verbale riporti la sottoscrizione del Presidente e della Segretaria che lo hanno redatto o modificato, specificando se l’inserimento nel verbale, al termine o dopo lo scioglimento dell’assemblea condominiale, di un condomino considerato “assente” nel corso dell’intero procedimento collegiale (costituzione, discussione e deliberazione) costituisca (o non) “mero errore materiale” e legittimi, pertanto, la modifica dei quorum costitutivi e deliberativi raggiunti nel corso della riunione assembleare.

Il caso e la soluzione

Due condomini impugnavano una delibera condominiale sia per assunti vizi relativi alla sua verbalizzazione, la quale era stata modificata in alcune indicazioni riguardanti la presenza e l’assenza di altri condomini successivamente alla chiusura dell’assemblea stessa che sulla legittimità riguardanti alcun lavori.

Nella costituzione del resistente Condominio, l’adito Tribunale, respinta la domanda di annullamento della delibera per assunti vizi formali, dichiarava l’invalidità della stessa in ordine ai criteri di riparto delle spese per l’esecuzione di lavori condominiali. Interposto appello da parte del Condominio e nella resistenza di entrambi gli appellati (che proponevano appello incidentale), la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza impugnata (per il resto confermata), rigettava ogni domanda proposta dagli originari attori, che venivano condannati alla restituzione della somma versata dal predetto Condominio per effetto della provvisoria esecutività delle sentenza di prime cure, oltre che alla rifusione delle spese del doppio grado. Impugnata la decisione di seconde cure dai due condomini, la Corte di legittimità respingeva il ricorso.

Impatti pratico-operativi

La sentenza selezionata è particolarmente interessante perché evidenzia entro quali limiti e a quali condizioni il verbale di assemblea condominiale può essere modificato a seguito dell’esaurimento delle operazioni assembleari, statuendo, in concreto, che la correzione apportata nella copia del verbale assembleare consegnata ai due ricorrenti non inficiava la validità della deliberazione assunta per la quale, eliminato l’errore materiale del computo dei millesimi e tenuto conto dell’effettiva partecipazione dei condomini presenti (anche per delega), era stato raggiunto il quorum necessario.

A tal proposito la S.C. richiama i principi espressi dalla precedente giurisprudenza secondo cui, in via generale, il verbale dell’assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune; esso deve, pertanto, contenere l’elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall’art. 1136 c.c.

Tuttavia, con la decisione in rassegna, la Corte di legittimità ha stabilito che eventuali interventi correttivi meramente materiali apportati al verbale successivamente alla chiusura dell’assemblea su disposizione del Presidente e con l’esecuzione da parte del segretario non comportano l’invalidità della relativa delibera allorquando le rettificazioni – comunque controllabili successivamente – non abbiano inciso significativamente sul computo della maggioranza richiesta per l’assunzione della delibera stessa, nel senso che non l’abbiano, in ogni caso, fatta venir meno.

E’ opportuno, tuttavia, precisare che, in tema di condominio di edifici, deve invece considerarsi nulla la deliberazione assembleare che sia stata adottata dopo lo scioglimento dell’assemblea stessa e l’allontanamento di alcuni condomini, a seguito di riapertura del verbale non preceduta da una nuova rituale convocazione a norma dell’art. 66 disp. att. c.c., risultando violate sia le disposizioni sulla convocazione dell’assemblea sia il principio della collegialità della deliberazione.

Esito del ricorso

Ricorso rigettato.

Precedenti giurisprudenziali

Per opportuni riferimenti, v. Cass. n. 697 del 2000; Cass. n. 18192 del 2009 e Cass. n. 24132 del 2009.

Riferimenti normativi

artt. 1136 e 1137 c.c.

(Altalex, 20 aprile 2015. Nota di Aldo Carrato tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer)

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Amministratore di condominio

Corte d’Appello di Venezia, sezione seconda, 14 gennaio 2015 Pres.rel. Tosatti; A. Amm R.D. sas (avv.ti Barbieri, D’Anza) c. Condominio G. (avv.ti Alvigini, Mazza)

..Omissis..

Motivi della decisione

Ed, invero, ex art.1129 comma decimo c.c., così come riformato, il rinnovo dell’amministratore è, per così dire automatico, essendo prevista la permanenza in carica dell’amministratore condominiale, per il caso in cui per qualsiasi motivo, non venga nominato altro soggetto, o non venga riconfermato l’incarico a quello attuale, con conseguente conferma dell’istituto della prorogatio”.

Pertanto, anche a riguardo al disposto dell’art.1135 c.c., oltre che alla normativa ex art.1129 c.c., si deve (…) ritenere che sia possibile ricorrere al Giudice per la nomina di un amministratore, solo qualora, il condominio sia affatto sprovvisto, con esclusione (..)[1] così dei casi come (..) comunque di un legittimo amministratore in carica (..); tanto più che per costante giurisprudenza tale istituto è destinato…

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Cassazione civile , sez. III, sentenza 19.12.2014 n° 26900

Il fatto

Durante i lavori di manutenzione della facciata di un edificio condominiale, il proprietario di un appartamento subì il furto di beni preziosi per un valore di circa 50 mila euro.

Il proprietario citò in giudizio il condominio e l’impresa appaltatrice dei lavori chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, in quanto il furto sarebbe stato agevolato dalle impalcature installate dall’impresa senza l’adozione di opportune misure anti-intrusive.

Il Tribunale di Roma accolse la domanda condannando i convenuti al risarcimento dei danni, quantificati in una somma di poco inferiore alla metà di quella richiesta.

La sentenza veniva sostanzialmente confermata in sede di appello, salvo che per il capo riguardante l’omessa rivalutazione del credito risarcitorio.

L’impresa e il condominio ricorrono per cassazione, la prima in via principale, il secondo in via incidentale.

I motivi di ricorso si incentrano, da un lato, sulla violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c. e sul vizio di motivazione relativamente all’affermazione della responsabilità dell’impresa appaltatrice e, in concorso con essa, del condominio committente; dall’altro, sulla violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., relativamente al capo della sentenza con cui è stata disposta d’ufficio la rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in primo grado a titolo di risarcimento.

La normativa

Codice civile

Art. 2043.
 Risarcimento per fatto illecito

Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

Art. 2051.
Danno cagionato da cosa in custodia

Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.

Codice di procedura civile

Art. 112.
 Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato

Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.

Art. 346.
Decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte.

Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate.

Inquadramento della problematica

Nella decisione in esame la Suprema Corte è chiamata ad affrontare una particolare questione in materia di responsabilità civile, che può essere compendiata nei seguenti termini:

– chi risponde dei danni causati dal furto commesso nell’appartamento di un condòmino da chi si sia introdotto utilizzando il ponteggio montato da un’impresa incaricata di eseguire lavori di manutenzione all’edificio condominiale?

Per rispondere al quesito è opportuno esaminare distintamente la posizione giuridica e gli obblighi gravanti sui due soggetti coinvolti nella vicenda: l’impresa esecutrice dei lavori da un lato, il condominio committente dall’altro.

Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza, formatosi proprio in relazione a fattispecie analoghe a quella in esame, l’imprenditore che utilizzi un ponteggio per eseguire lavori sugli edifici è responsabile ai sensi dell’art. 2043 c.c., quando abbia trascurato le ordinarie norme di diligenza e non abbia adottato le cautele idonee ad impedire l’uso anomalo del ponteggio. (1)

La responsabilità si ricollega non tanto alla sussistenza del ponteggio in sè, quanto alla mancata adozione di idonei accorgimenti anti-intrusivi (quali un sistema di illuminazione notturna, un servizio di vigilanza ecc.), atti in concreto ad ovviare alla situazione di pericolo che ne deriva, essendo evidente che la presenza di un’impalcatura rende agevole l’accesso alle abitazioni private da parte di eventuali malviventi.

Oltre all’impresa esecutrice occorre poi valutare se, e a quale titolo, possa essere chiamato a rispondere dei danni anche il condominio che ha disposto l’esecuzione dei lavori.

Al riguardo, secondo l’interpretazione prevalente (2) è configurabile nella fattispecie anche una responsabilità del condominio quale custode del fabbricato ai sensi dell’art. 2051 c.c.

Si tratta, stando alla ricostruzione teorica oggi più accreditata, di una responsabilità di natura oggettiva, poiché il criterio di imputazione è dato dal mero nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, mentre non assumono alcun rilievo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Il fondamento della responsabilità è costituito dalla custodia, cioè dal potere di governo della cosa che lega il custode alla cosa stessa e che si compone di tre elementi (3): il potere di controllare la cosa, il potere di modificare la situazione di pericolo creatasi, il potere di escludere i terzi dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno.

Il custode può andare esente da responsabilità solo provando l’esistenza del caso fortuito, elemento che esula dal comportamento del responsabile ed inerisce invece al profilo causale dell’evento; il fortuito si riconduce non alla cosa in sé ma ad un elemento esterno, avente i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante.

Infine, secondo un altro orientamento giurisprudenziale (4), oltre che quale custode, potrebbe ipotizzarsi a carico del condominio anche un ulteriore profilo di responsabilità, in base al paradigma generale dell’art. 2043 c.c.; cioè una responsabilità per culpa in vigilandoo in eligendo, qualora si accerti che il condominio ha omesso di sorvegliare l’operato dell’impresa appaltatrice dei lavori o si sia affidato ad un’impresa manifestamente inadeguata a garantire una regolare e sicura esecuzione dei lavori.

La sentenza

– Ad avviso della Corte di Cassazione, nella fattispecie la sentenza impugnata ha correttamente affermato sia la responsabilità dell’impresa appaltatrice sia quella concorrente del condominio, sulla base delle seguenti ragioni:

1) la mancata adozione di idonee misure anti-intrusive (quali l’illuminazione notturna, la guardianìa ed altri accorgimenti) ha agevolato il furto, essendo emerso che il ladro si era introdotto nell’appartamento proprio attraverso il ponteggio lasciato incustodito.

L’impresa appaltatrice è perciò responsabile ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver violato una regola di ordinaria diligenza e di minima perizia che impone a chi utilizza ponteggi ed impalcature l’adozione di cautele idonee ad impedire l’uso anomalo di tali strutture.

2) Il condominio, per parte sua, risponde dei danni in qualità di custode; avendo disposto il mantenimento della struttura, ha omesso di esercitare la dovuta attività di vigilanza e custodia, con ciò agevolando l’accesso abusivo del ladro nell’abitazione del condòmino.

D’altro canto, il condominio non può invocare a proprio discarico, nei confronti della parte danneggiata, la clausola del contratto di appalto che imponeva all’impresa l’obbligo di adottare ogni misura idonea ad evitare danni a terzi e addossava alla stessa impresa ogni conseguente responsabilità.

– Secondo i principi generali (art. 1372 c.c.), infatti, una simile clausola ha effetto obbligatorio e vincolante solo tra le parti del contratto e non nei confronti dei terzi danneggiati, consentendo unicamente al committente di rivalersi nei confronti dell’appaltatore per gli eventuali danni a terzi di cui sia chiamato a rispondere per effetto del comportamento imputabile all’appaltatore stesso.

La clausola quindi non esonera il committente dalla responsabilità verso i terzi danneggiati, qualora il committente abbia omesso di esercitare la dovuta vigilanza circa la concreta attuazione delle misure anti-intrusive.

– La decisione impugnata è invece errata nella parte in cui ha disposto d’ufficio la rivalutazione della somma liquidata; la sentenza ha qui applicato la regola secondo cui rivalutazione monetaria e interessi costituiscono una componente dell’obbligazione risarcitoria, quale debito di valore, e possono essere riconosciuti anche d’ufficio ed in grado di appello, anche se non specificamente richiesti e purchè non espressamente esclusi, in quanto sono compresi nell’originario petitum della domanda.

Nella circostanza, tuttavia, al momento di formulare le sue conclusioni in appello la parte danneggiata ha dichiarato di accettare senza riserve la sentenza di primo grado anche riguardo all’importo liquidato, con ciò chiaramente rinunciando alla domanda relativa alla rivalutazione monetaria.

– In conclusione, la Terza Sezione, respinti tutti i motivi di ricorso relativi al riconoscimento della responsabilità dei ricorrenti (l’an debeatur), cassa la sentenza limitatamente alla parte in cui ha condannato alla rivalutazione monetaria sulla somma liquidata (il quantum debeatur); somma che resta perciò quella decisa dal giudice di primo grado.

(fonte Altalex)

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